22 agosto 2008

B.S. Johnson. La dannazione della verità



Ho trascorso l'ultima oretta - con il sottofondo del notevole documentario di Rai 3 "La croce e la svastica" - cercando di approfondire le mie inesistenti conoscenze su un autore inglese suicidatosi ancora giovane (era nato nel 1933), nel 1973. B. S. (Brian Stanley) Johnson fu un autore sperimentale prolifico ma non prolisso. Riteneva insensato costringere la gente a leggersi tomi di centinaia di pagine quando, diceva, le stesse sensazioni estetiche te le può dare un film nel breve volgere di una serata. «Non è un caso,» scriveva ancora, «se fu James Joyce ad aprire il primo cinema di Dublino nel 1909»
Un editore americano di nicchia, New Directions, ha scelto di ripubblicare quest'anno The Unfortunates, un romanzo che Johnson pubblicò nel 1969. Prefatore e curatore di questa edizione è il grande scrittore contemporaneo Jonathan Coe, che nel 2004 ha pubblicato, a trent'anni dalla morte, una appassionante biografia di Johnson, Like a fiery elephant. The Unfortunates viene recensito dal New York Times nel suo ultimo supplemento librario. L'arrivo della periodica newsletter nella mia casella ha scatenato questa miniricerca.
La recensione di Charles Taylor è lunga per essere citata qui nella sua interezza, specie in un post (apparentemente) fuori tema. Ma non posso fare a meno di riportarne la chiusa, che mi sembra efficacissima:
“The difficulty,” Johnson writes in the book’s final chapter, “is to understand without generalization, to see each piece of received truth, or generalization, as true only if it is true for me, solipsism again, I come back to it again, and for no other reason.” I don’t know the reasons that, four years after “The Unfortunates” was published, Johnson killed himself at age 40. But reading those words at the end of this extraordinary book you recognize a writer whose belief in truth as the raison d’être of the novel, and whose fastidious determination to achieve it, made him worry that he had fallen back on the “fiction” he abjured. Yet it’s hard to imagine a less solipsistic novel than “The Unfortunates.” This book, with no belief in God, no hope of heaven, makes you feel the stuff of life as sacred, and our inability to hold on to it as damnation enough for anyone to be made to bear.
The Unfortunates ha un primo e un ultimo capitolo. Tutto quello che sta in mezzo è stampato su segnature non rilegate e custodite in un cofanetto. A novel in a box, la chiamarono quando uscì. Un racconto che il lettore affronta casualmente, senza un filo conduttore, come il flusso disordinato di ricordi che il suo protagonista, un giornalista sportivo incaricato di seguire un match in un'altra città, deve affrontare tornando dei luoghi della sua frequentazione di un amico morto anni prima, per un precocissimo e spietato cancro. Johnson, come scrive il suo recensore Taylor, era ossessionato dal rischio di ricadere nella tentazione di una letteratura di finzioni, al posto di quella lucida verità che riteneva unico obiettivo possibile della narrazione. Una sorta di negativa di Borges, al contrario convinto che tutto fosse finzione in un universo palesemente assurdo.
Di questa ossessione parla anche Coe nella sua biografia. Su Johnson un anonimo cronista letterario ha realizzato un sobrio sito Web, in cui sono raccolti ritagli, fotografie, articoli e diversi clip audio di programmi radiofonici dedicati allo scrittore. Inclusa la trasmissione di Night Waves del 2004 in cui Jonathan Coe presentava agli ascoltatori di BBC Radio 3 la biografia di Johnson. Nello stesso anno Picador pubblicava anche un Omnibus con i tre romanzi più fortunati di Johnson, Albert Angelo, Trawl e House Mother Normal, in cui si raccontano le vicende di uno strano ospizio per vecchi.

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